AHMED BENSAADA, Arabesque américaine. Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe,Les éditions Michel Brûlé, Montréal 2011, ISBN 978-2-89485-513-3, 120 pp.

 

“Scrivere un libro sul ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte arabe è problematico per almeno tre motivi: l’autore potrebbe essere etichettato come un anti-americano paranoico e ossessionato da visioni complottiste; potrebbe passare per un sostenitore, se non persino un ammiratore, di autocrati tirannici e dirigenti megalomani che hanno usurpato il potere da ormai troppo tempo; non è escluso neppure che venga tacciato di essere un nemico della ‘nobile e gloriosa rivoluzione del popolo’” (p. 11). Con queste parole si apre il lavoro di Ahmed Bensaada, che rifuggendo da facili schematismi riesce senza dubbio ad evitare i rischi paventati, caratterizzandosi al contrario per una virtù duplice e abbastanza rara: la capacità di offrire una ricostruzione accurata in una cornice espositiva chiara e di agile consultazione. Dopo l’introduzione, i primi tre capitoli della ricerca ripercorrono i momenti salienti delle rivoluzioni colorate, le modalità operative delle organizzazioni statunitensi che promuovono la “democrazia” nel mondo, la recente evoluzione delle tecnologie informatiche. Un lungo capitolo centrale è quindi dedicato al caso dell’Egitto, mentre il quinto analizza gli avvenimenti in altri Paesi arabi e l’ultimo propone una sintesi intepretativa d’insieme.

L’Autore individua il referente teorico di tutti movimenti protagonisti delle rivoluzioni colorate, cioè Otpor! in Serbia, Kmara! in Georgia, Pora! in Ucraina e KelKel in Kirghizistan (nonché della Juventud Activa Venezuelana Unida in Venezuela e dell’opposizione “verde” in Iran) nel libro From Dictatorship to Democracy di Gene Sharp, fondatore dell’Albert Einstein Institute,  di cui più di un’inchiesta ha ventilato i legami con la CIA. La catechesi rivoluzionaria di Mr. Sharp ha beneficiato negli anni della promozione di Robert Helvey, ex colonnello dell’esercito americano, che ha pubblicamente ammesso il finanziamento, da parte del governo USA, di 25 milioni di dollari al gruppo Otpor! di Srđa Popović. Quest’ultimo risulta essere tra i fondatori del CANVAS (Centre for Applied Non Violent Actions and Strategies), una vera e propria “internazionale colorata” che istruisce e addestra gruppi di opposizione grazie ai finanziamenti di Freedom House, dell’International Republican Institute di John McCain e dell’Open Society Institute di George Soros. Tali organizzazioni, cui Bensaada aggiunge – limitandosi per brevità – il National Endowment for Democracy e la USAID, si muovono trasversalmente ai partiti politici americani perseguendo una finalità comune: fornire un orientamento dottrinario e sovvenzionare i focolai d’opposizione in quei Paesi non allineati agli USA o la cui instabilità potrebbe tracimare in avversione verso Washington. Con un po’ d’ironia si potrebbe affermare che il logo recante il pugno chiuso, che campeggia come simbolo di tutte le organizzazioni “colorate”, non poteva dissimulare meglio l’ispirazione morale ed il sostegno materiale che ne alimentano l’attivismo.

Proprio il CANVAS ha avuto un ruolo importante nella coordinazione del “Movimento della giovinezza 6 aprile” in Egitto, come lo stesso Popović ha riconosciuto pubblicamente. Bensaada, inoltre, cita e commenta quattro cablogrammi di WikiLeaks, riferiti ad un arco temporale compreso fra il novembre 2008 e il febbraio 2010 (10CAIRO99, 08CAIRO2371, 10CAIRO215, 08CAIRO2572), da cui emergono dettagli interessanti. Per esempio, alcuni gruppi di opposizione avevano partecipato a due “programmi di formazione” a Washington: il “Project on Middle East Democracy”, sostenuto insieme da Freedom House, dall’istituto di Soros e dal National Endowment for Democracy tra 2008 e 2009 e il “New Generation”, finanziato dal Dipartimento di Stato americano e dalla USAID nel gennaio 2010. Dal 3 al 5 dicembre 2008 New York ha ospitato l’incontro della Alliance of Youth Movements, che raccoglie diversi “cyberdissidenti” con cui l’ambasciata americana aveva stretto contatti. Sempre il National Endowment for Democracy ha finanziato un altro gruppo vicino al “Movimento 6 aprile”, cioè l’Egyptian Democratic Academy. Da due dei cablogrammi citati risulta che il coordinatore di questo gruppo, Bassem Samir, nel febbraio 2010 (cioè un anno prima dei disordini cairoti) si è impegnato ad accogliere il ritorno in Egitto di Muhammad al-Barādeʿī, cercando di costruirgli intorno un consenso. Appare ben verosimile che l’ex direttore dell’AIEA fosse il candidato di Washington in vista dell’eventuale successione a Mubārak, anche tenendo conto della sua partecipazione al consiglio d’amministrazione dell’istituto International Crisis Group, composto da membri di Freedom House e da George Soros in persona.

La rete di intrecci che testimonia l’interesse statunitense a indirizzare a proprio vantaggio il malcontento popolare trova indizi eloquenti anche in altri Paesi. Slim Amamou, il cyberdissidente “più celebre della Tunisia” (p. 79) nel maggio 2009 aveva partecipato al Cairo a due incontri: uno organizzato dal governo americano e l’altro dall’istituto di Soros. Tawakkul Karmān, “la pasionaria della rivolta yemenita” (p. 83), arrestata e rilasciata tra il 22 e il 24 gennaio 2011, è direttrice dell’ONG Women Journalists Without Chains, fondata nel 2005 e finanziata dal National Endowment for Democracy. Parimenti, la ONG giordana Al Quds Center for Political Studies vive delle risorse del National Democratic Institute for International Affairs, legato al Partito Democratico USA e presieduto da Madeleine Albright.

Secondo Bensaada, nelle rivolte arabe l’ingerenza statunitense si è avvalsa anche di un sostegno inedito: la collaborazione di grandi multinazionali dell’informatica. Durante le proteste del Cairo, “quando il governo egiziano ha bloccato Internet e telefonia mobile, Google e Twitter hanno lavorato insieme per trovare una soluzione che permettesse ai cyberattivisti egiziani di comunicare” (p. 42), cioè il programma Speak2Tweet. In un Paese non arabo ma di interesse strategico come l’Iran, il software di navigazione anonima TOR è stato diffusamente concesso agli oppositori. Google, Facebook e YouTube hanno invece contribuito, insieme al Dipartimento di Stato USA, allo sviluppo di movements.org, la rete dell’Alliance of Youth Movements, che ha già organizzato tre vertici internazionali. Peccato però che al G-20 di Pittsburgh la polizia americana abbia arrestato chi, usando Twitter, favoriva il passaggio di informazioni fra i manifestanti. Nella democrazia statunitense deve aver fatto scuola il motto giolittiano: come la legge, anche l’etichetta di tirannia censoria si applica ai nemici ma si interpreta per sé stessi e per gli amici.

Pur se fondato prevalentemente su fonti in rete che, con il passar del tempo, ne rendono problematica la verifica, il lavoro di Bensaada è una ricostruzione molto documentata. In appendice vengono anche riportati, sulla base del rapporto ufficiale, i finanziamenti versati nel 2009 dal National Endowment for Democracy a 174 ONG. Concluso nell’aprile 2011, il libro avanza ipotesi tuttora valide circa gli interessi USA a sostenere le rivolte. Ḥosnī Mubārak era ormai da qualche anno un alleato non più così fedele: la condanna dell’esecuzione di Saddām Husayn, l’avvicinamento all’Iran e la contrarietà alla secessione del Sud Sudan hanno certo accresciuto il favore ad un suo rovesciamento. Per l’Egitto, d’altronde, può valere ciò che ha spinto gli USA a intromettersi nei disordini di altri Paesi: evitare che i regimi dispotici da essi sostenuti – che comprensibilmente hanno generato nel tempo sentimenti antiamericani presso le rispettive popolazioni –  potessero essere rovesciati e sostituiti da governi ostili.

Il ruolo degli Stati Uniti non è certo da intendersi come una complottistica “regia occulta”, bensì come una serie di investimenti strategici allo scopo di cavalcare un’ondata di proteste sospinta da fattori endogeni propri a ciascuna realtà locale. L’Autore lascia intendere che la capacità di cooptazione da parte americana deve moltissimo alla corruzione e alle ingiustizie sociali nei Paesi in questione. Di ciò possono e devono far tesoro gli Stati sovrani dal quadro politico ancor oggi sotto minaccia di indesiderabili “pennellate di colore”: legalità, equità sociale, sviluppo economico – in un contesto di coesione nazionale che sia però in grado di assorbire anche le forme di dissenso – sono antidoti essenziali per sottrarre reclute alle ingerenze esterne.

 

Dario Citati

Geopolitica, Vol.1, n°4., Inverno 2012

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